Classici contemporanei - Parole Spalancate Lorenzo Pittaluga
Attivo dal 1995, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole Spalancate” è la più grande e longeva manifestazione italiana di poesia
Festival, poesia, Genova
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Classici contemporanei

Classici contemporanei

CLASSICI CONTEMPORANEI
Rubrica di Marco Ercolani*


LORENZO PITTALUGA
Sono la foce e la sorgente
Italic Pequod, 2015

 

lorenzo pittalugaSe è vero che la malattia psichica determina spesso una sensibilità particolare, come se non ci fosse più lo schermo della pelle a riparare i confini indefiniti dell’anima dalla percezione esterna del mondo e a proteggerla dall’invasione interna dei fantasmi, di questa sensibilità Lorenzo Pittaluga (1967-1995) si fa testimone. Volendo fuggire dall’inevitabile cronicità della sua sofferenza psichica – ricoveri protratti, abusi farmacologici, episodi confusionali -, Pittaluga non agisce in modo sommesso ma con un tuffo euforico nell’estasi della poesia e nell’ignoto della morte, pervaso dalla stessa esaltazione con cui raccontava a me, ancora diciassettenne, il delirio di essere santo. «Mai stato un giorno senza paura, / senza la luminosa paura / di essere dimenticati» (Remo Pagnanelli).

Per Lorenzo la vita non è mai solo la vita ma la metafora della vita. E oggi, con la sua esistenza assente, esemplifica una verità assoluta: un poeta non può che pensare l’oltre. «Io non resisto ai princìpi / senza vera sostanza, / presento un resto,/ un ritardo tra gli uomini».

Lorenzo non ha avuto il tempo di raggiungere, tra il sé e il non sé, un equilibrio in cui riformulare in termini meno drammatici la sua personale scommessa contro l’ordine mediocre del mondo, e si è perduto. Ma oggi, a oltre vent’anni dalla scomparsa, rimane, a noi che sopravviviamo (e questa antologia vorrebbe esserne segno), il suo tragico “modo” di dire che la vita è straordinaria e va vissuta anche perdendola: «Le scritture, le mie, naturalmente / nate postume, celano la forma / del riposo, del denso incantamento. // Versi da gogna nati per non restare, / per morire embrioni innalzati // dal mio ostinato orgoglio. // Leggimi di notte come io scrivo, / fallo pietosamente, con indulgenza, perché, lo sai, sono nato sfinito. // Diritta non è la mia strada, / confuse le orme. Sulla selce, / calciato, è il mio volto incancrenito»».

Con la sua poesia Pittaluga non ha riscattato il suo dolore biografico. Non ha spiegato nulla. Non ha salvato nulla. Si è “percorso”. Lorenzo leggeva prosa e poesia in modo febbrile, apparentemente con scarsa concentrazione, ma si imbeveva come una spugna delle parole altrui. Assorbiva parole da ogni stimolo esterno, da ogni sensazione, come se non avesse potuto far altro che questo: immergersi nella materia stessa delle parole, nella sintassi in cui combinava, articolava, disarticolava il linguaggio. Come se, non essendo facile vivere, si potesse sostituire la vita con l’incantesimo di una parola “liberata” dai vincoli del significato. Lorenzo usava metri e timbri diversi: non era naif in poesia, né selvaggio né istintivo, ma, al contrario, meticoloso e ossessivo, pur non possedendo un sapere metrico e linguistico. Non poteva tacere. Doveva esprimersi. Ma non è vissuto abbastanza per mettere in rapporto le sue parole con la sua vita: ha vissuto quelle e questa come due universi non comunicanti che, nell’attimo in cui si fossero compenetrati, temeva andassero in cortocircuito.

Oggi, però, non importa sapere nessuna “verità” sulla sua avventura terrena. Invece, del suo sforzo di rendere le parole vere e vive, il poeta genovese ci lascia una scia definita: le sue poesie, che oggi, in questa antologia, abbiamo occasione di rileggere. Ci rivela come abbia potuto, in assenza di una vita sintonica, scrivere una poesia dissonante, distonica e spigolosa, infelice ma decisiva, posseduta dal sogno di una euforica trascendenza, nutrita dalla complicità con la morte, sì, ma immersa nella vita, con ostinazione, anche quando la vita, per lui, si riduceva a essere soltanto un gruppo di parole. Ma quelle parole – la loro forma, il loro intrico, il loro addensarsi e respingersi – erano il suo modo di rappresentare/nascondere un nodo biografico troppo doloroso che con altre parole – quelle della terapia, forse della guarigione – non avrebbe saputo e potuto sciogliere. Forse i folli «volano /senza neanche curarsi eternamente / di quale mente sono in obbedienza» (Silvia Bre). Lorenzo non ha risolto i suoi conflitti, li ha troncati. Lo testimonia la morte tragica, ma non improvvisa e non imprevista: un tuffo nel vuoto a 28 anni, pochi giorni dopo il Natale del 1995: «in un sussurro / impercettibile sussurro / dove le più tenere voci languiscono (cetre?) / al suono – duro – / nella polvere precipitato».

Di questo precipitare – volo di Albatro che rifiuta di marciare goffamente sul ponte della nave – Pittaluga testimonia, sentendosi “fantasma vero d’ogni inamovibile realtà”, essere umano affaticato dal peso dell’esistente, pervaso dal desiderio di una metamorfosi liberatoria che sciogliesse i nodi del suo malessere per sempre. Diceva, in vita: «La mia poesia si regge su pertiche di parole» e la sua esagerata volontà di scrivere versi rispecchiava la sua volontà eccessiva di cancellarsi dal “numero opprimente dei vivi”, ma nella vita di quei ritmi. Alcuni suoi versi parlano di “colline” che non “collimano”: sembra un gioco di parole ma è un modo molto preciso per definire il suo stato interiore. Oppure scrive: «Mi fermo alla mente». È proprio la mente che non ha mai potuto o saputo controllare: ogni idea di armonia si è fatta incidente, maldestra“trave di inciampo”. Quando Lorenzo parla di “guinzagli-fazzoletti” per descrivere una scena di addio, non potrebbe essere più esatto. I segni convenzionali dell’addio sono anche simboli di cattività, sono guinzagli e vivono legati per sempre nella stessa parola.

Oggi, a oltre vent’anni dalla morte, siamo autorizzati a rileggere le poesie edite (Sono la foce e la sorgente, Italic Pequod, 2015) e inedite di Lorenzo Pittaluga come l’eredità di un poeta tragico, beffardo, surreale, inclassificabile, la cui inattualità coincide con la risonanza speciale delle “anime strane”, sempre fuori da ogni progetto razionale, quindi sempre esposte alla vita, quindi potentemente vere: «Il tuo smarrimento – il tuo esserci / nella visione con i trucchi delle falene / che attorniano il tempo scordandolo / nei luoghi della calamita e dei perduti bisbigli».

 


marco ercolani*Marco Ercolani è psichiatra e scrittore. E’ autore di una vasta bibliografia che comprende saggi, romanzi e raccolte poetiche.
Con Turno di guardia ha vinto nel 2010 il Premio Montano per la prosa inedita. Tra le sue ossessioni: i racconti apocrifi, le vite immaginarie, la poesia contemporanea e il nodo arte/follia.