Classici contemporanei - Parole Spalancate Lucetta Frisa
Attivo dal 1995, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole Spalancate” è la più grande e longeva manifestazione italiana di poesia
Festival, poesia, Genova
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Classici contemporanei

Classici contemporanei

CLASSICI CONTEMPORANEI
Rubrica di Marco Ercolani*


LUCETTA FRISA
Nell’intimo del mondo. Antologia poetica 1970-2015
puntoacapo editore, 2016

 

lucetta frisa

Nell’intimo del mondo è un titolo che non fa sconti, nella poetica di Lucetta Frisa, e mette in gioco, a carte scoperte, il senso di un percorso poetico che nei ritmi del dire ha trovato una sua strada: quella, in sostanza, di non seguire nessuna strada se non la pulsazione di una riflessione filosofica intessuta alla fisiologia del corpo vivo.

La prima sensazione, leggendo l’intero volume, è quella di una evoluzione non progressiva ma imprevedibile e rapsodica. Il patrimonio musicale dei primi versi non è una riserva inerte di sonorità antiche ma un costante mettersi in gioco all’interno di una costellazione di ritmi mai identici a se stessi, dentro una luminosa “deriva” della voce mai appagata da codici noti ma solo da una realtà in divenire, di natura emotiva.

Nell’intimo del mondo. Antologia poetica 1970-2015 (puntoacapo editore, 2016) raccoglie poesie diverse da tredici raccolte edite fra il 1970 e il 2015 (I miti, le leggende; La costruzione del freddo; Modellandosi voce; La follia dei morti; Notte alta; Gioia piccola; L’altra; Siamo appena figure; Disarmare la tristezza; Se fossimo immortali; Ritorno alla spiaggia; L’emozione dell’aria; Sonetti dolenti e balordi). Come scrive Vincenzo Guarracino, le poesie di Frisa sono «partiture liriche e drammatiche, storie di un’inquieta ricerca di luce in cui si coniugano e trovano corpo pensiero e memoria in strutture di controllata densità, in una lingua mutevole e lunare, a tratti drammaticamente franta, cavalcantiana, la cui esplicita ambizione è quella di far lievitare e sopravvivere “in punta di penna” quell’idea di sé, enigmatica e femminile, cangiante, che ognuno si porta dentro, nei propri intimi “inferni”, come una risorsa o una condanna».

Queste mobili partiture poetiche resistono, come zone di rigore e di pathos, nel corso della sua lunga esperienza di scrittura, come suggerisce Antonio Devicienti nella postfazione: «E la poetessa, lettrice a voce alta, mai abbandona il suo desiderio di canto, cioè di vita, il suo struggersi per ciò che è bello, esperendo talvolta la comprensibile malinconia per quanto appartiene al passato, più spesso sdoppiandosi in un’’altra” che le permette di esercitare uno sguardo potenziato, mi verrebbe da dire “al quadrato”, […] proseguendo e attuando la possibilità concessa solo alla (e dalla) scrittura di poter vivere più vite contemporaneamente».

I temi di questa poesia sono diversi, ma si rincorrono uno nell’altro: i cinque sensi, quando la sua voce canta come in estasi l’emozione che la meraviglia; il mito, quando la voce pensa di descriverne le figure; le forme della poesia stessa, quando la voce diventa parola ritmica; la riflessione metafisica, quando la voce diventa tentazione filosofica; il viaggio nell’io e il percorso biografico, quando la voce scava nella propria memoria personale; ma questi temi sono solo archetipi che devono essere poi modulati dal personale “timbro” poetico. C’è una palpabile, terrestre, sensualissima metafisica in una poesia che, come questa, non si accontenta dell’istintiva musicalità ma cerca, dalla sua matrice sonora, di ricostituire un senso nuovo che sia simultanea conquista di pensiero e di forma. Non abbandono compiaciuto alla tastiera delle parole, dunque, ma strumentazione adeguata di questo suono, costruzione di una sintassi che non prescinde dalla musica verbale ma che da essa e con essa, attraverso polifonie e monodie, ridondanze e cesure, asprezze e assonanze, cerca di “significare”. Osserviamo qualcosa di simile a un logos che rinuncia alla sua autonomia filosofica e concettuale per essere “pensiero laterale” che fa scaturire in forma poetica le immagini che riflette. «Ciò che qui non appare è anche altrove materia / materia la luce che come notte scompare / e il volo radente del nero lunare / prende nella sua scia e si resta muti / sapendo che sottoterra siamo nati / e in mezzo alle parole non c’è fiore». Il pensiero non è mai estraneo al corpo, al contrario gli è contiguo, sostanziale: «Vorrei credere un messaggio sacro / l’ìmprevista invasione della luce / nel mio scuro letto addolorato». Così gli “autoritrattidiurni e notturni”, più che disegnare una autobiografia precisa inventano un guardarsi intimo, universale: «Mentre cammino cammina anche il mondo / sento intorno il suo fremito / storie intrecciarsi con il loro fracasso / e un punto esatto di quella frase diventa un fosso, / si spacca / il bel pavimento a cera ma io non volo giù, / resto lì in piedi».

Se «Essere soli è essere nell’intimo del mondo», come scrive Antonio Ramos Rosa in epigrafe al libro, questa antologia testimonia una solitudine dell’io sempre attenta alle vibrazioni del paesaggio-mondo. Versi come “La nostra nota, la sola / come un colpo secco sulla nuca”; “la fine e il fine – / suono rauco nel buio, / in stupore”; “Solo chi sale conosce il precipizio”; “Intera fra emozioni voglio esserci”; “Così restano voci sottili / nel cielo notturno dei pavimenti / restano segni sulla pelle / tremiti improvvisi dappertutto”, sono disseminati nel corso di decenni in libri diversi, ma tutto farebbe intuire che provengano da un unico Libro in corso d’opera, il libro che Lucetta non può smettere di scrivere.

Ogni poeta che raccoglie le sue poesie o nell’opera omnia o in un libro antologico finisce per scoccare una freccia ulteriore dal suo arco: in questo caso è Cronache di estinzioni (puntoacapo, 2020), libello civile, eretico, ironico, furioso, la cui energia poetica combatte con giovanile orgoglio il disastro ecologico delle cose: «Comporre un verso o un ponte / è strutturare / la vibrazione di una colonna vertebrale / sognare / ancora un nesso / perché le parole con le macerie non restino / inerti strumenti sul fondo. / Ciò che è compiuto appartiene subito al regno dei morti. / Solo quello che è ancora da finire è eterno».

 


marco ercolani*Marco Ercolani è psichiatra e scrittore. E’ autore di una vasta bibliografia che comprende saggi, romanzi e raccolte poetiche.
Con Turno di guardia ha vinto nel 2010 il Premio Montano per la prosa inedita. Tra le sue ossessioni: i racconti apocrifi, le vite immaginarie, la poesia contemporanea e il nodo arte/follia.