Classici contemporanei - Parole Spalancate Alessandro Ceni
Attivo dal 1995, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole Spalancate” è la più grande e longeva manifestazione italiana di poesia
Festival, poesia, Genova
1947
post-template-default,single,single-post,postid-1947,single-format-standard,ajax_fade,page_not_loaded,,paspartu_enabled,paspartu_on_bottom_fixed,qode_grid_1300,qode-content-sidebar-responsive,qode-child-theme-ver-1.0.0,qode-theme-ver-13.2,qode-theme-bridge,wpb-js-composer js-comp-ver-5.4.5,vc_responsive
 

Classici contemporanei

Classici contemporanei

CLASSICI CONTEMPORANEI
Rubrica di Marco Ercolani*


ALESSANDRO CENI
Parlare chiuso. Tutte le poesie
(Puntoacapo, 2012)

alessandro ceniLa nave rollò per giorni e giorni
mutando perse figura
sciogliendola in finissimo sale
che infine cadde alla vista del mare

si liberava il minerale dalla ganga
la conchiglia dal suo alveo
i gravi e tardi fondi notturni e marini
il progetto stesso del mondo

morte da un picco onde correnti circondavate
le donne d’una costa disincantare
altre donne lungo i balconi
al traliccio che sopporta la cupola d’acqua discendere

guardavate tra coloro che mai ebbero corpo di donna
i non nati di madre i non generati dal padre
della matrice il non elemento
nessuno che abitasse la prua del molino

sotto la ciglia la sommità del colle
la bianchissima nave procede
a posarvi il piede
gettata l’àncora nel bosco
un bianco essere di specchio

Scrive René Char: «Il poeta deve accettare il rischio che la sua lucidità sia giudicata pericolosa. Il poeta è la parte dell’uomo refrattaria ai progetti prudenti».
E progetto non prudente è quello di Alessandro Ceni, che da sempre mette al centro del suo paesaggio poetico la materia arcaica e tellurica del mondo, «la bianchissima nave», «il progetto stesso del mondo», che il poeta abita distogliendosi dalle rituali maschere dell’io. Il silenzio è l’approdo a cui tende la parola. Ma non può essere il silenzio dell’inizio: deve essere il silenzio dell’arrivo. In sintesi, la poesia raggiunge, con forme diverse, la sua natura di grido (che è espressione, “espressionismo”) e si scopre porosa, lacunosa, traversabile da sussulti. Ogni arte autentica ha qualcosa di elementare, di atroce, di irriducibile alla logica del discorso. Poi, dopo tutto questo, dopo aver traversato il sogno e la notte, dopo essere stata a un passo dall’afasia, riprende a essere canto. Ma canto nudo, breve, sempre all’inizio – che è anche approdo – di sé.
Ascoltiamo, dal primo libro di Ceni, Il viaggio inaudito, questi versi:

Dall’inizio che mosse fermo
con un’estrazione dal buio
finché urtai la luce e ruppi
-accecante acciaio, per cantare,
non un ricordo lungo che sapessero,
un vero morto
i cui raggi accendevano – tra
aria e aria e aria,
ogni respiro riproducibile

L’ermetismo espressionista di Ceni non concede sconti, fin dall’inizio della sua navigazione poetica.
Non ci sorprende che il poeta fiorentino abbia tradotto la Ballata di un vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge e il Moby Dick di Hermann Melville.
Ogni suo libro è un viaggio estremo da cui il poeta, come Ismaele, sopravvive a fatica, mostrando appena le tracce, “estasi da un miraggio di specchio”, “segreti inammainati”. Scrive Ceni: «Con quale coraggio / rimangono gli uccelli / sull’orlo d’aria» ed è questa la domanda che il poeta, lucrezianamente, si pone sempre. «I pensieri prima di dormire / partoriscono erba».
Il suo sguardo esce da qualsiasi concetto per restare nel precipizio di una natura invasa, di una visione permanente.

Parlare chiuso è un libro composto da tutte le raccolte poetiche di Ceni: Il viaggio inaudito, I fiumi, La natura delle cose, Mattoni per l’altare del fuoco, Combattimento ininterrotto.
Ogni raccolta è introdotta da un commento critico (Roberta Bertozzi, Stefano Guglielmin, Massimo Morasso, Daniele Piccini, Salvatore Ritrovato). Citerei un frammento dal saggio di Morasso, che centra uno dei nodi di questa poetica: «Nelle sue cadenze più esplicite Ceni ci mostra di aver slontanato da sé l’io poetante e l’io biografico. Di averli portati entrambi al collasso, e di averli sollevati al livello di un paesaggio mentale in grado di contemplare lucidamente l’al di là, il Regno, il solo punto incandescente dov’è possibile l’incontro fra il mistero della natura delle cose e la voce, paterna e filiale a un tempo, che è stata chiamata a nominarle. Nei Mattoni per l’altare del fuoco Ceni l’orfico, l’animista, il presocratico, è effettivamente all’interno della logica del mito. Una logica visionaria, evidentemente, e quindi un’a-logica»
Nella sua “XII Pitica” Pindaro racconta che Atena si incapriccia del flauto e vuole suonarlo. Per soffiare nello strumento, gonfia le mascelle e deforma la bocca: ma, mentre è intenta a suonare, incurante del satiro Marsia che la invita a smettere, si guarda riflessa nelle acque di un fiume e scopre il suo volto divino trasformato in maschera. Inorridita da quella deformità, lascia il flauto al satiro, che se ne impadronisce. Lo strumento diventerà la sua gloria e la sua disgrazia. Marsia si illude, suonandolo con sapienza, di battere Apollo, ma sarà Apollo a sconfiggerlo. La sua lira emetterà una melodia accordata al canto umano, mentre dalla bocca del satiro, distorta dal furore del soffio, non potrà uscire che un suono inumano. Come Marsia sarà scorticato dal dio vittorioso, che appenderà la sua pelle a una grotta alle sorgenti del Meandro, così sullo scudo di Atena, in una delle versioni classiche sulla morte della Gorgone, spiccherà la pelle scorticata di Medusa. Apollo e Atena proteggono l’identità della ragione con l’esibizione di un’alterità sconfitta. Ma la pelle di Marsia e di Medusa, ricordandoci la stretta affinità fra lo strumento della trance orgiastica e la demoniaca maschera gorgonica, non cessano di essere visibili, frontali e minacciosi proprio perché rimossi. La «difformità» di Medusa si accompagna, in ogni versione del mito, alla sua simmetrica e perturbante «frontalità».
Di questa frontalità del mito Ceni si fa spesso portavoce, con dionisiaca durezza. È difficile, in una breve nota di lettura, mostrare la complessità delle visioni del poeta, ma si può affermare che tutta questa sua immaginosa complessità si inscrive, nel foglio, in una pronuncia ispida, arcaica, tra mito e narrazione, della parola, né consolatoria né esaustiva, ma spesso spigolosa e oscura, immune dalle malìe del linguaggio, terrestre ma quasi aliena.

Tu che non sei di questo mondo e sei nella polvere
e siedi alla parte breve del tavolo
estrai dalla tasca il bosco e dal bosco te stesso,
coi tuoi pensieri stesi ad asciugare sul greto
del fiume essiccato come cordicelle annodate
da un bambino estivo, che raso sull’erba
scocchi festuche marine alla terra e
al passo dei tordi protetti la prua di pigne
del promontorio nel ceduo del mare aperto,
dove al medesimo intento le cieche aringhe
migrano e sprofondano


marco ercolani*Marco Ercolani è psichiatra e scrittore. E’ autore di una vasta bibliografia che comprende saggi, romanzi e raccolte poetiche.
Con Turno di guardia ha vinto nel 2010 il Premio Montano per la prosa inedita. Tra le sue ossessioni: i racconti apocrifi, le vite immaginarie, la poesia contemporanea e il nodo arte/follia.