Classici contemporanei - Parole Spalancate Giovanna Sicari
Attivo dal 1995, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole Spalancate” è la più grande e longeva manifestazione italiana di poesia
Festival, poesia, Genova
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Classici contemporanei

Classici contemporanei

CLASSICI CONTEMPORANEI
Rubrica di Marco Ercolani*


GIOVANNA SICARI
Poesie
Empiria, 2006

SicariSe Dio si commuove trovi un cesellatore / vede, se ce la fa a passare dalla cruna / di un ago,se ci riesce scriva i nomi / con inchiostro speciale / e poi incida, incida, incida!».

L’invito di Giovanna Sicari è una perentoria invettiva:qualsiasi miracolo a cui la poesia presti voce deve essere inciso tre volte, con magica potenza, a testimoniare quella cosa “impossibile” che è appunto la poesia. La sua parola esclamativa, energica, petrosa, così evidente nel volume che riunisce tutte le sue raccolte poetiche (Poesie, Empiria, 2006) è una condizione di allerta, di disagio e di assedio, come una provvisoria pausa in un campo di battaglia.

«Mattino aperto è questo che si vive come in guerra» (…) immancabile è la vertigine / lo stile appreso è il giusto spavento».

La poesia non attutisce nessuna paura, è pronta a scagliarsi contro qualche nemico, si annida nella psiche come nei soprusi del mondo ed esige, per la sua bellica e aggressiva strategia, uno stile “giusto”, adeguato, “sublime” (nella definizione di PseudoLongino sublime significa adeguato).

Questa poesia estenuata ma eccessiva, barocca, densa di colori e fitta di suoni, è il “dono incolume” che salva la vita, anche se per breve tempo, dall’irrimediabile tragedia della sua futura scomparsa: «Strepita di tenerezza / l’ultimo sogno che non sono riuscita a sognare». Anche se non sognato, quel sogno è suono, segnale, qualcosa che urge, cerca vita, forme, tracce.

Fin dai primi anni Ottanta, Giovanna Sicari vuole essere giovane, invasata dalla vita: «(…) e pazzi saremo/ aspri, attoniti con le frasi dei posseduti». Ma vuole anche scrutare, senza pudore, il suo personale tormento, impastato nella malattia reale, il tumore che ne causerà la morte, e in quel vortice di analogie, immagini, febbri, visioni, che la fanno vibrare come una persona ”scorticata”. Si dice, di certi veggenti o di certi folli, che la loro pelle è quasi assente, che hanno nervi, tendini, arterie scoperti. La poesia di Giovanna trasmette questa immediata impressione di essere urticante e urticata, e vuole raccontarci «quel senso criminale e divino della vita / quando si dicono cose stupide e care» (13 giugno 1999, le ville senza di noi).

Ardua ma non elusiva, difficile ma non criptica, Sicari sa che “la rivolta è un labirinto onirico” e s’inventa una strada tutta sua, erotica, felice, disperata, da avventuriera della lingua, sommersa nell’officina dei suoi sensi e nella trama delle sue parole, in un “vortice che si mantiene equidistante dal delirio come dal realismo” (Deidier). Non casualmente il libro Epoca immobile, che precede la raccolta completa delle Poesie, svela un appassionato ritorno verso l’infanzia, un suo “maturare” indietro nel tempo, fino all’età mitica dell’innocenza. Sicari scrive «Ci siamo rialzati ed era infanzia!» (5 novembre 1999, via Varesina). Il ritmo febbrile che innerva la sua poesia qui si acquieta. I rancori, le accuse, le preghiere, sono lontani. Riappaiono le figure di quando era bambina, le ville, gli antichi nomi, le primavere romane, gli autunni, i piccioni, gli specchi, le briciole, la figura del padre. «Solo aria, solo una bestia che tace, pioverà / senza attesa, tutti vivi come adesso» (Pista silenziosa).

Non potendo il desiderio poetico e umano trovare nuove forme, scrive ”Io, caos umano,vivo nella gioventù/ di altri”. Agli altri, a quelli che vivranno e leggeranno, Giovanna offre non solo il groviglio della sua veemente poesia,ma la sfida di aver traversato la propria malattia con la passione umana, umanissima,di sconfiggerla. «Non fatemi andare contro i ferri (…) mi offrirò intera e senza tagli / perché il cielo c’è e mantiene». Il cielo, spiritualmente e laicamente, è composto da queste poesie che sono il suo ultimo libro, il suo conclusivo “sigillo”. Intorno al tema dei sigillo Giovanna, in quella che sarà la sua ultima intervista, risponde così a Gabriela Fantato: «C’era molto forte l’esigenza di “sigillare”, di imprimere una sorta di traccia, di “marchio a fuoco” dentro la carta, (…) un mio voler sigillare in maniera indelebile, qualcosa che avevo visto, intuito e sentito, come se fosse impossibile per me cancellare, come se fosse impossibile tornare indietro.(…) La poesia, quindi, almeno la mia, cerca di cogliere l’aspetto creaturale del vivere, la comunità umana unita nella condizione di dolore e di offesa».

E, nella prefazione di un libro di Francesca Serragnoli, Il fianco dove appoggiare un figlio, ribadisce senza incertezze la sua poetica ultima: « (…) Il dolore personale, il dolore di una malattia, non è redentore, è autistico, depressivo, la catarsi vera, quella epica (l’unica cosa che conta, che ci accomuna) è quella della totalità dell’essere, ovvero quella nascita, quel dolore (perché di questo si tratta – ammettere la nascita fino in fondo vuol dire porre fine alla propria adolescenza e non tutti ce la fanno, e sappiamo che questa ammissione vuol dire accettare il nostro dover morire)».

Alla fine Giovanna, rovesciando ogni logica, lascia la vita terrena come una sciamàna che oltrepassi i confini di questo regno per resuscitare dal regno dei morti: «Il piccolo essere sotto la coperta domanda / e io mi oppongo e non mi sento degna / masse d’aghi e spilli mi sottraggono / al corpo. Sono arrivati con una valigia / gli estranei e chiedono di me /non si sa chi sia la madre o il padre / bisognerà andare fra loro, chiedere / dei loro morti, farli rivivere adesso». Nella “resistenza” del poeta si innesta il “furore” di fallire alla vita, ma anche l’assoluto bisogno di un amore che varchi ogni limite, che curi alla fonte anche quanto sembra impossibile curare.
«Vorrei baciarti il sangue / amore mio, e ancora fare andare / le dita nel vento,
accarezzarti i capelli, la fronte / sentirti dentro l’aria
dentro il ventre, sentire / come è leggero il vento / e come apre le vie / e come tutto sembra possibile / sapere quanto possa / l’amore con la saliva e il silenzio / curare dalla fonte».


marco ercolani*Marco Ercolani è psichiatra e scrittore. E’ autore di una vasta bibliografia che comprende saggi, romanzi e raccolte poetiche.
Con Turno di guardia ha vinto nel 2010 il Premio Montano per la prosa inedita. Tra le sue ossessioni: i racconti apocrifi, le vite immaginarie, la poesia contemporanea e il nodo arte/follia.