Prima del calcio di rigore - Parole Spalancate Paolo Rossi
Attivo dal 1995, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole Spalancate” è la più grande e longeva manifestazione italiana di poesia
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Prima del calcio di rigore

Prima del calcio di rigore

PRIMA DEL CALCIO DI RIGORE
Rubrica di Stefano Rissetto*


L’ESTATE DI PAOLO ROSSI

paolo rossiL’uomo che non c’era sbucò dal niente tre volte, in quel tardo pomeriggio di ferro arroventato, sul prato che oggi è un discount, e tutto quel che era stato divenne un’altra cosa.
L’uomo che non c’era ti accorgevi che ci fosse quando ormai era tardi, dico per i difensori e il portiere avversari. Appariva segnava e spariva di nuovo, fino a un altro gol. Chiuso nell’enigma del suo sorriso.
Non è stato male avere in sorte il 1982, come linea d’ombra tra l’adolescenza e la maturità. L’attraversammo in un tempo in cui tutto sembrava poter accadere. Connors che rivinceva Wimbledon otto anni dopo aver battuto Rosewall, calpestando stavolta le ombre dello Svedese e dell’Irlandese, lui che non ce n’era uno che fosse più americano. Saronni che finalmente indossava l’arcobaleno, dopo essere stato costretto a frenare sul circuito dove Lauda aveva danzato col fuoco e con la morte, dopo aver sentito tintinnare i trenta denari trentini all’ombra dello stadio più grande del mondo e quindi dell’universo. Poi se permettete nel nostro piccolo c’era anche la Sampdoria, che finalmente tornava in A dopo cinque anni, e per darsi il bentornata da sola prendeva e vestiva di blucerchiato un altro di quei baby boomers che in quel 1982 sarebbe diventato maggiorenne, il bimbo più bravo di tutti. Ma ne riparleremo.

Si chiamava Paolo Rossi e non aveva la faccia da calciatore. Bearzot lo aveva voluto riportare al Mondiale, quattro anni dopo l’Argentina lontana e sola, nonostante una squalifica e la tigre assenza. Aveva continuato a farlo giocare, malgrado quattro partite senza gol.

Poi venne quel 5 luglio, alle cinque e un quarto della sera, in mezzo al campo un uomo venuto da Haifa vestito di nero. Da una parte, la squadra forse più forte di sempre. Dall’altra un capitano dal nome antico e dal cognome come un sospiro, accanto a dieci commilitoni con la tuta bianca con un gallo, dati da tutti al sacrificio. Tutti meno loro, appunto.

Ci eravamo radunati al bar accanto alla Cattedrale, a due passi dal liceo, noi cinque della II A ormai quasi III A, per vederla in allegria da sbronzi, tanto era l’ultima. Al Brasile, figuriamoci, bastava il pareggio.

Poco dopo le sette tutto era cambiato e per sempre. Nessuno di noi e nemmeno i nostri padri sapevano che cosa volesse dire vincere un Mondiale, eppure anche se mancavano ancora due partite ormai sapevamo che quel Mondiale sarebbe stato nostro. Erano finiti gli anni Settanta che non erano certo stati così brutti come li si dice, cominciavano gli Ottanta che non sono poi stati così belli. Ma sono stati il tempo della giovinezza e quindi del ricordo. E l’uomo che non c’era, con quel 20 sulla schiena della maglia azzurra, come era sbucato dal niente così ci rientrò. Come se andarsene fosse il suo mestiere.

Il 1982, di nuovo nel nostro piccolo, è stato anche il 12 settembre del Doria. Stavolta l’uomo che non c’era giocava lui nel Brasile, o meglio nella squadra che in Italia lo era. Quattro campioni del mondo oltre a lui, più Boniek e Platini. Ero tornato apposta un giorno prima da un corso preuniversitario a Cortona, per stare nella Sud. Era la stessa partita del 22 maggio di cinque anni prima, nella Juventus sette calciatori che allora avevano vinto la partita 2-0 e lo scudetto avevano aspettato tutto quel tempo per rigiocarla. Nel Doria, uno solo. Un difensore che doveva marcare Platini e invece andò a segnare.

Molti anni dopo, si venne a sapere che dopo il Mondiale l’uomo che non c’era aveva passato le vacanze su uno yacht in compagnia del presidente del Doria. Che qualche anno dopo avrebbe posato un assegno in bianco sul tavolo del presidente di Maradona. Ma questa non è più una storia del 1982.

Anche perché ormai è davvero finita, quell’estate del 1982 che sembrava non dovesse finire mai.
L’uomo che non c’era stavolta si è portato via il pallone, un pallone grande come il mondo che era stato nostro, mentre lui segnava a Peres che se n’è andato tre anni fa e adesso si ritroveranno come due Abele senza nessun Caino, e Saronni scattava nella foresta e Connors legnava sull’erba e su un’altra erba Ferroni volava con una farfalla sulla schiena, mentre i Vanzina giravano in Versilia quel film che finisce negli occhi neri di una ragazza e nel celeste di una nostalgia, e intanto Battiato cercava un centro di gravità permanente, ed era bellissimo perdersi in questo incantesimo.
Di quell’estate resta una lettera d’amore scritta sulla sabbia, anzi un biglietto: “A proposito, sei sempre la più bella“.

 


stefano rissetto*Stefano Rissetto, nato nel 1964 a Sestri Levante, vive a Genova. Da ragazzo avrebbe voluto fare il corridore ciclista e gli è rimasto il rimpianto di non averci provato davvero. Laureato in giurisprudenza con una tesi di filosofia del diritto, giornalista professionista, per un quarto di secolo ha lavorato al Corriere Mercantile e scritto per Stampa, Giornale, Avvenire e altri quotidiani e settimanali. Collabora a Primocanale. Scrive romanzi in cui il calcio c’entra e non c’entra.