Poevisioni - Parole Spalancate L'orgoglio del Cinéphile
Attivo dal 1995, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole Spalancate” è la più grande e longeva manifestazione italiana di poesia
Festival, poesia, Genova
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Poevisioni

Poevisioni

POEVISIONI. Il cinema ritrovato
Rubrica di Maurizio Fantoni Minnella*


L’ORGOGLIO DEL CINEPHILE, TRA SPLENDORE E MISERIA

bertolucciChe cos’hanno in comune due film come The dreamers-I sognatori di Bernardo Bertolucci e Io sono fotogenico di Dino Risi?
Apparentemente nulla.
Eppure tra il cinema cosiddetto “alto” del regista parmigiano e il “basso” del re della commedia all’italiana, c’è proprio il cinema con la C maiuscola non tanto per ciò che si definisce come linguaggio filmico o come stile, quanto per la magnifica ossessione che sembra muovere i protagonisti o il protagonista dei due film: il cinema, appunto, nella declinazione del mito e del culto dei film americani, e, naturalmente, del leggendario À bout de souffle, di J-L Godard.
Ma qual è il vero crinale che separa, distinguendole, le azioni dei primi con quelle del secondo?
La cinéphilie, quel sentimento totalizzante che spinge i tre giovani protagonisti (due francesi e un americano) del film di Bertolucci a trascorrere buona parte del proprio tempo di studenti universitari non in una sala cinematografica qualsiasi ma alla Cinémathèque française di Parigi che allora, nel 1968, era diretta dal leggendario Henri Langlois, seduti nelle prime file, sempre più addosso allo schermo, quasi per “ricevere per primi le immagini che giungevano da esso” come in una sorta di comunione estetica.
Si sdoganava tra quelle mura il cinema come conoscenza ed esperienza, al punto di farne un culto autoreferenziale.
Il cinema è il cinema
di godardiana memoria, risuonava, infatti, come un imperativo categorico o come un aforisma!. Ciò che avviene sullo schermo è più vero della vita vera. E’ l’epoca dei Cahiers du Cinéma, la vera bibbia dei cinephile francesi e del resto d’Europa.

La Nouvelle Vague era il verbo per chi il cinema intendeva farlo per davvero. Ma un momento, anche il giovane protagonista, ingenuo e provinciale del film di Risi si divertiva proprio in quello stesso gioco con un’amica fedele. A distinguerli l’uno dagli altri non è tanto la natura in sé del gesto, ma la finalità ad esso sottesa: nel caso dei tre giovani borghesi quella della replica del gesto filmico è la pratica attraverso cui farlo proprio ed eternarlo nella propria coscienza visiva, mentre in quello del ragazzo di provincia è il sogno mimetico dell’essere e del divenire attore tra gli attori.
Dunque, è l’atto stesso del vedere un film più importante del film stesso. La soggettività dello spettatore come voyeur ancor più dell’oggetto del desiderio. Dunque, per i tre giovani, eternamente chiusi in casa tra pratiche sessuali e imitazioni di sequenze cinematografiche celebri, il cinema è un involucro protettivo, paradossalmente più vero, come si è detto, della vita vera. Con l’eccezione della corsa a cronometro lungo l’intero spazio del Louvre, ma, ancora una volta, per imitare ciò che accade in un film tra i meno noti di Godard Band à part (1964) e al tempo stesso per superare il record stabilito in quel film.
Soltanto il sopraggiungere della rivolta del Maggio francese che preme in strada come un turbine sotto le finestre di casa, a spingere questi sedicenti “cuccioli del Maggio”, a precipitarsi fuori tra i manifestanti sulle barricate e a dire si (almeno da parte dei due parigini) ad una possibile violenza rigeneratrice.
Che cos’è, in fondo, la cosiddetta politique des Auteurs, se non la moderna e definitiva incarnazione della critica cinematografica militante, il modo di distinguere tra cinema-spettacolo e cinema-cinema che ha conservato la propria egemonia fino alla fine del XX° secolo, l’età del cinema, appunto, che lentamente si avvicina al proprio declino?

Ma se le immagini sul grande schermo continuano a sedurre masse di spettatori, è la loro decodificazione nella difficile arte e pratica del giudizio, ad essere messa in discussione e quindi, destinata ancor prima ad esaurirsi. E le ragioni di tale fenomeno sono da ricercare, innanzitutto, nell’ormai diffusa equiparazione di “alto” e di “basso”, non precisamente nel senso dell’uso di materiali per così dire popolari entro una griglia espressiva autoriale, talvolta foriera di cortocircuiti virtuosi, come, ad esempio, accadeva in musica nella prima metà del XX° secolo con compositori come l’ungherese, Bela Bartok, ma nella semplice attribuzione di un valore meramente soggettivo a qualsiasi opera-prodotto. Il cosiddetto like dilagante in Rete come unico termine di giudizio, ha cominciato a diffondersi in ambito culturale e non solo cinematografico.
Ma si sbaglierebbe chi pensasse ad una semplice e determinata volontà del nuovo mercato globale, comunque interessato ad eliminare quel cuscinetto culturale di mediazione necessario tra il mercato stesso e il vasto pubblico, volto ad offrire un possibile orientamento o, se si preferisce, una bussola critica che, ancora, sappia discernere di valori o di qualità cinematografiche, letterarie o musicali.
Piuttosto, diremo, una precisa volontà in seno alle nuove generazioni di cinephile, di intraprendere un percorso ambiguo e accidentato, per taluni versi perfino snobistico, alimentando attraverso una vasta pubblicistica e con interi volumi, il culto del trash-movie nostrano, dissertando, per così dire, sulle splendide “sorti” dei generi cinematografici rispetto al cinema d’autore.
Tutto questo, nel tentativo bislacco di coniugare Quentin Tarantino con la Nouvelle Vague che negli anni sessanta alimentava con un non meno nascosto snobismo il culto di registi nordamericani minori come Nicholas Ray e Samuel Fuller.
Ai nipotini nostrani, invece, il compito di innalzare al rango di autori (un potere ne sostituisce un altro, sempre!) i vari artigiani Lenzi, Fulci, Lado, Castellari, e via citando.
Alla fine, resta pur sempre la sala buia del cinema, con i suoi protagonisti e i suoi comprimari e ancora una volta noi, seduti, per un vizio di gioventù, nelle prime file, sempre in bilico tra il cinema e la vita.

Che cos’è rimasto, oggi, di tale fervore, dell’idea tanto ambita e capillarmente diffusa di cinema come arte? Conviene partire dal fatto che in una prospettiva economica globale, proprio il cinema ha mostrato la propria fragilità riproponendosi come spettacolo/intrattenimento e non come arte cinematografica. Andrebbe, tuttavia, ricordato che nella settima arte, fin dagli esordi, abbiamo convissuto liberamente arte e puro spettacolo, sale d’essai (creatura nata nel mondo cattolico) e multisala. Da ciò è derivata quella dialettica, spesso finita nel manicheismo, tra una minoranza di topi da cineteca, fervidi assertori di un cinema di idee e di stile, e il grande pubblico in cerca di distrazione, di puro spettacolo e di evasione dalla quotidianità.

Ciò che accade oggi, è invece una progressiva deriva verso lo spettacolo ad alto budget e quindi ad alto reddito. Si deve quindi ritenere che quella stagione avviata con il neorealismo e giunta all’apice negli anni sessanta e settanta con la politica degli autori e le nuove cinematografie, insomma con il rinnovamento generale del linguaggio filmico, fosse una sorta di stato d’eccezione, (per usare una definizione cara al filosofo Giorgio Agamben), come, in fondo, lo sono state tutte le avanguardie e i movimenti rivoluzionari del XX° secolo.

Regredisce lo spettatore alla primitiva seduzione dello spettacolo che ora più che mai si consuma nella propria stanza o su un computer. Tre gli elementi che hanno condotto così velocemente il cinema alla perdita della propria aura sacrale: lo spostamento verso un sempre più intenso consumo privato e domestico che aveva già conosciuto una prima fase negli anni ’80 del secolo scorso con la nascita dei supporti analogici e successivamente, digitali; la nuova produzione di fiction seriale diffusa a livello globale che ha diffuso l’idea che questa rappresenti fin da subito lo spettacolo per immagini narrative filmate del futuro.

L’autore in possesso di un proprio stile viene sostituito dal professionista confezionatore di un prodotto credibile; ma l’elemento, forse, di gran lunga più determinante si rivela, non soltanto l’accelerazione nella produzione d’immagini di cui ormai siamo, come dire, immersi, ma la sua personalizzazione attraverso l’uso diffuso delle Rete dove ciascuno provvede a postare le proprie immagini fisse o in movimento che sommandosi diventano una nuova babele, a conferma della la natura profetica dell’ormai classico volume del sociologo americano Marshall Mc Luhan, ovvero Il medium è il messaggio.

Come accade in ogni epoca di declino, l’agonia si protrae per lungo tempo presentandosi perfino in sembianze di vitalità facendo pullulare ovunque i “fortini”, ancora una volta a difesa del cinema d’autore, ossia i festival da cui, nel frattempo, si è generata una nuova creatura il cosiddetto “film da festival” da intendere come oggetto residuale di un’epoca ormai conclusa, in realtà sembra essere piuttosto l’ultimo avamposto spesso tollerato o perfino deriso dal mainstream dominante, di una cultura cinematografica che era avanguardia tra le altre discipline artistiche.

E’ dunque tramontato il tempo in cui cresceva la vanità di essere in pochi a conoscere un film o un regista, nel quale perdere un solo cineforum, oppure, per vedere il film di un autore di culto in anteprima si era disposti a chissà quali sacrifici, Ciò che è invece rimasto è una pallida imitazione del culto, ma tristemente al ribasso e come se non bastasse, con un retrogusto decisamente reazionario.

Oggi, infatti, assistiamo al trionfo di un populismo mercantile (differente rispetto a quello politico, tuttavia non meno insidioso) e al tempo stesso ad una forma sino ad ora inedita di individualismo di massa, dove l’uno finisce per specchiarsi inevitabilmente nell’altro. Pertanto, queste pagine vanno lette come un canto del cigno, non tanto del cinema in quanto tale, che nel sopravvivere a se stesso, seguiterà a volare qualche volta in alto e il più delle volte in basso, verso un “prodotto” all’insegna della mediocrità elevata a sistema, quanto del pensiero critico, uno dei tratti salienti i quella modernità, ormai irrimediabilmente perduta.


Fantoni Minnella*Maurizio Fantoni Minnella è uno scrittore, saggista e documentarista italiano. Instancabile viaggiatore, ha realizzato oltre trenta documentari su biblioteche nel deserto, lavori notturni, problematiche mediorientali, storie di quotidiana resistenza e molti altri universi sociali, culturali, umani.