Poevisioni - Parole Spalancate Riscrivere il Novecento musicale
Attivo dal 1995, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole Spalancate” è la più grande e longeva manifestazione italiana di poesia
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Poevisioni

Poevisioni

POEVISIONI. Il cinema ritrovato
Rubrica di Maurizio Fantoni Minnella*


RISCRIVERE IL NOVECENTO MUSICALE TRA REVISIONISMO E PENSIERO CRITICO

 

Nell’acceso dibattito sul revisionismo politico e culturale del XX° secolo, riferibile in particolare alla sua seconda metà, coincidente in senso artistico con il binomio neo-avanguardie-neo-capitalismo, un ruolo non trascurabile viene attualmente esercitato sia in ambito musicale che in quello cinematografico da una critica revisionista, appunto, come avviene anche in ambito letterario dove ormai da alcuni decenni prevale con bruciante evidenza il diktat populista in ossequio al mercato, peraltro accettato da editori, critici e dagli stessi scrittori, che si fonda su due principi speculari: la semplificazione dello stile e il tramonto della letterarietà. Rispetto, ad esempio, al funzionamento dell’industria culturale (per usare una definizione che fu di Theodor. W. Adorno nella Dialettica dell’illuminismo), nel ventennio ’60 / ’70 del secolo scorso, è la stessa produzione culturale ad orientarsi sempre più in direzione dei gusti di un pubblico mainstream e non il contrario, quando ebbe la nobile funzione di elevare il gusto medio del pubblico, in larga parte giovanile, con proposte qualitativamente di livello grazie a cui si tentò di allargare gli orizzonti culturali di un’intera generazione. Ma se osserviamo attentamente tale fenomeno scopriamo che dietro il rifiuto quasi totale della musica cosiddetta delle neo-avanguardie, sperimentale ma anche di quella precedente atonale e dodecafonica, ossia la precisa volontà di fare un vero e proprio regolamento di conti con essa, vi sia, innanzitutto, un intento squisitamente politico, anzi, ideologico, che consisterebbe in una condanna senza appello di gran parte della cultura musicale novecentesca, in un fosco quadro da diluvio universale da cui si salverebbero solamente quegli autori e quelle opere, tenutisi fedelmente ancorati all’arca protetta del sistema tonale, e dietro la quale non è difficile intravedere il concetto di egemonia in senso gramsciano. In altre parole si vorrebbe attribuire l’oscurità, il rigore matematico, l’astrazione e la conseguente incomprensibilità o se si preferisce la non comunicazione con il pubblico (questi sono i capi d’accusa), ai principi messi in atto dall’ideologia marxista nel corso del XX secolo, quali il materialismo storico e l’ateismo, quindi l’assenza dell’elemento spirituale, a partire dagli scritti musicologici del francofortese Adorno, a risalire fino all’egemonia comunista nelle istituzioni culturali e musicali in quello che viene causticamente definito il “ventennio rosso”. Da contrapporre demagogicamente al cosiddetto “ventennio nero” quasi che una simile comparazione antistorica potesse, infine, diventare, un giorno, a sua volta egemone. Ad un potere, quello del serialismo e dell’aleatoria, codici estetici riferibili alle neo-avanguardie, se ne vorrebbe, dunque, sostituire un altro, quello del neo-tonalismo, della “nuova semplicità” che concettualmente possiede la stessa vuotezza di un’improbabile “nuova complessità”. Oltre al fatto che non esiste un’equazione o una mimesis provata tra ideologia marxista e linguaggio sperimentale e d’avanguardia, sarà bene notare il paradosso, che ne confermerebbe il dubbio, secondo il quale, se il realismo socialista condannava l’avanguardia musicale, rea di essere borghese e decadente, i nuovi neo-tonali del tardo capitalismo, accusano a loro volta quella stessa avanguardia di essere “comunista” (ossia in ossequio all’egemonia culturale marxista), proprio in virtù della sua materialistica oscurità seriale.

 

Per meglio comprendere ciò che davvero sta accadendo nel dibattito odierno intorno alla musica del XX° secolo, può essere illuminante rimandare agli scritti teorico-critici di David Fontanesi (1989), compositore contemporaneo con una formazione filosofica, nei quali spesso emerge tutto il livore, talora espresso in forme irrispettose se non addirittura offensive verso tale musica, segno a suo dire, di un pensiero unico, di un diktat intellettuale che negherebbe aprioristicamente ogni altra possibile scelta estetica. Ma leggiamo alcuni significativi passaggi che confermerebbero l’ipotesi di una sorta di rancore ideologico celato dietro freddi e virtuosi tecnicismi descrittivi (proprio identici alla musica che vorrebbe porre sotto processo!…) e che in buona sostanza propongono, anzi, auspicano il ritorno ad un ascolto “edonistico” e a suo dire, non banalizzante: Se l’intento di Schonberg, Boulez, Stockhausen, era quello di ingenerare degli ascoltatori un senso di smarrimento e alienazione, occorre ammettere che il loro scopo lo hanno ampiamente conseguito, ma perché – mi domando -rimanere inchiodato per decenni a quelle pesanti catene serial puntilliste senza riuscire ad estrarre da quelle sterpaglie sonore mai nessuna nota che potesse suscitare diletto negli ascoltatori. Perché hanno caparbiamente preteso di blindare l’arte musicale all’interno di schematismi paranoici, avendo cura di turare tutti gli spiragli dai quali potesse fuoriuscire un qualche refolo di Bellezza?…(1)

Nel testo suddetto vi è perfino una volontà precisa di equiparazione tra oscurità seriale e banalità neo-romantica quasi si tratti di due modi opposti e speculari di negazione della musica quale veicolo per raggiungere altezze di spiritualità e bellezza. Nei suoi testi (per l’esattezza tre), accanto ad analisi tecnicistiche e riferimenti dotti, fin troppo esibiti, vi è certamente la volontà di fare una disamina della produzione novecentesca colta, compromessa, tuttavia, da una miopia orgogliosamente voluta e ostentata nei confronti di qualsiasi espressione che si muova al di là del sistema temperato, o se si preferisce, della tradizione. Le argomentazioni, pur dialettiche, portano aprioristicamente alla difesa di quelle musiche messe al riparo dal diluvio atonale e dodecafonico, ignorando ad esempio, la variante del politonalismo ben rappresentata dall’opera dell’ungherese Bela Bartok, che è appena citato, come non lo è un altro grande compositore del primo novecento, Leos Janacek, che riprendendo le intuizioni musorgskijane, avanzate per la sua epoca, perviene ad una forma di prosa musicale che trova nel nuovo dramma musicale novecentesco la sua massima applicazione. E lo stesso avviene per la linea musicale italiana che da Ferruccio Busoni giunge sino a Goffredo Petrassi e a Luigi Dallapiccola, che adottò la serie dei dodici suoni con sensibilità tutta italiana e dai quali ci sono giunte composizioni di prima grandezza. Anche loro sono più che mai Novecento!

E che dire poi del più vituperato di tutti, il veneziano Luigi Nono: …La musica di Brian Ferneyhough non è insignificante perché “tecnicistica”, come quella di Luigi Nono non lo è perché ideologica o quella di Helmut Lachenmann perché “utopistica; la musica di questi compositori è mediocre, perché palesemente “brutta” e priva di un’estetica dottrinaria che la supporti, risulta nel complesso inintelligibile (2), del quale, come si evince da queste righe, è messa in discussione la stessa dignità di compositore! Artefice, peraltro, di un percorso artistico articolato e sempre coerente con la ricerca di un nuovo linguaggio dei suoni, ad una nuova concezione dello spazio, non più riferibile alla disposizione tradizionale delle fonti sonore. Quanto poi al fatto di ritenere ignominiosa la cosiddetta “Seconda Scuola di Vienna”, al punto di bocciarla in toto, facendo risalire ad Arnold Schonberg l’origine di tutti i mali del ‘900 e attribuendo perfino al suo fallimento matrimoniale la fatale deriva nell’atonalismo, non vi è dubbio che l’attacco frontale alla modernità in musica può dirsi compiuto almeno nelle sue linee essenziali.

E inoltre, guardando ad Alban Berg appena con sufficienza, concedendogli il beneficio di una più lieve declinazione della serialità ma volutamente ignorando due capolavori come il Wozzeck o Lulù e infine ad Anton Webern, il terzo elemento e il più estremo, come un astruso poeta del nulla, autore di una musica così aforisticamente scarna da risultare vuota e dalla quale prese avvio negli anni ’50 il cosiddetto serialismo post-weberniano che ebbe il suo vate padre padrone in Pierre Boulez!…Il tono dominante è dunque quello di una furia revisionista della storia musicale, di una sua riscrittura che nasce però da un regolamento di conti ambiguo e vorace con la storia contemporanea.

E’ comunque innegabile che alcune estremizzazioni del metodo seriale o aleatorio come il cosiddetto spettralismo (Grisey, Sciarrino) spingano la musica oltre i propri confini naturali, ossia verso il silenzio (che resta pur sempre parte della musica stessa), ma è fin troppo evidente che Fontanesi risponda a delle dinamiche ideologiche ancor prima che estetiche, nell’uso ripetuto delle parole Dio, tradizione, bellezza, spiritualità, quasi a voler affermare l’esistenza di una sola idea di bellezza che corrisponderebbe all’edonismo e al piacere dell’ascolto. Quando invece sarebbe bastato riconoscere la legittimità della ricerca musicale (al di là dei singoli risultati), come risultato di un’evoluzione del suono e delle sue molteplici combinazioni, acustiche, elettroacustiche ed elettroniche. Se sono esistite un’arte o un’architettura moderna, perché, allora, non avrebbe dovuto esserci una musica moderna?

 

La questione molto dibattuta da Fontanesi sulla presunta bruttezza di tale musica rimanderebbe al classico binomio bellezza-bruttezza legato ad una tradizione che ha avuto una propria ragione d’essere fino al XIX° secolo, mentre sappiamo che sono altri i parametri di giudizio possibili, ossia l’introduzione di quell’elemento di diversità che li contiene e al tempo stesso li nega entrambi. Fu, inoltre, il progressivo esaurirsi delle risorse del sistema tonale intorno alla fine di quello stesso secolo, a dare avvio alla ricerca di nuove forme e nuovi linguaggi musicali sebbene, quel voler andare oltre la tradizione, declinando il nuovo e il moderno come categoria a se stante, che detta le proprie regole, abbia certamente prodotto nel corso dei decenni assuefazioni, cattive imitazioni e facili dogmatismi e conseguentemente l’allontanamento del pubblico che in misura davvero minoritaria, continua ad applaudire sentendosi sempre più elite culturale.

Ma dall’ammissione di tali limiti ai toni di ripugnanza apocalittica espressi dall’autore, vi è proprio la misura dell’equilibrio e dell’obiettività dello studioso e del critico. In questo progressivo esaurirsi di un’autentica ispirazione musicale, pare tuttavia sterile riproporre vecchi stilemi, figure e architetture armoniche già udite migliaia di volte. Si tratta del medesimo rischio rispetto all’ostinata coazione a ripetere schemi seriali che ormai non hanno e non possono più avere alcuna traccia di autentica modernità. Forse è proprio il grande pubblico che ha decretato se non la fine, almeno la decadenza di tale musica, troppo abituato a concepire in generale la musica come una forma di intrattenimento, di rispecchiamento nell’immediato quotidiano, se si vuole, come del resto sta avvenendo per quella che un tempo era l’arte cinematografica.

Fontanesi, nei suoi testi (meritevoli comunque, di più d’una lettura), dipinge il Novecento come un secolo buio, dove pare che, nell’assistere alla morte di Dio, si pervenga alla morte dell’arte (musicale in questo caso). O in altre parole, il suicidio della rivoluzione equivarrebbe all’auto da fè della musica moderna!… Siamo convinti, invece, che la musica del ‘900 abbia seguito il corso assegnatole dalla storia umana e insieme dall’evoluzione interna al proprio linguaggio. Non è pertanto giudicabile solo in virtù delle sue qualità comunicative, del livello di consenso del grande pubblico, così come è avvenuto per l’arte moderna e contemporanea, sebbene un’arte del tempo e non dello spazio come la musica richieda talvolta uno sforzo davvero incommensurabile.

Note
1. David Fontanesi, Preludi a una metafisica della musica contemporanea, Zecchini editore, Varese 2018, pag.36
2. David Fontanesi, Note sigillate Il bello, il brutto, il nuovo nella musica, Zecchini editore, Varese 2020, pag.50


Fantoni Minnella*Maurizio Fantoni Minnella è uno scrittore, saggista e documentarista italiano. Instancabile viaggiatore, ha realizzato oltre trenta documentari su biblioteche nel deserto, lavori notturni, problematiche mediorientali, storie di quotidiana resistenza e molti altri universi sociali, culturali, umani.