Cose che interessano a me - Parole Spalancate Cose che interessano a me
Attivo dal 1995, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole Spalancate” è la più grande e longeva manifestazione italiana di poesia
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Cose che interessano a me

Cose che interessano a me

COSE CHE INTERESSANO A ME
Rubrica di Stefano Trucco*


1884

amandaChe bello: l’occasione di parlare contemporaneamente di un argomento che conosco molto bene, la storia americana, insieme a uno che conosco così così, la poesia.
L’elezione presidenziale americana del 1884 fu molto combattuta: ma a quei tempi praticamente tutte le elezioni erano combattute fino all’ultimo voto e con una partecipazione popolare massiccia.
Il candidato repubblicano, cioè del partito che stava alla Casa Bianca dal 1861, fu il Segretario di Stato James G. Blaine, un politico di lungo corso, abile ma toccato da parecchi scandali; il candidato democratico fu il Governatore di New York, Grover Cleveland, notoriamente onestissimo.
I programmi politici dei due partiti erano praticamente identici e tutta la campagna si basò sulle personalità dei candidati: i democratici accusarono Blaine di essere corrotto mentre i repubblicani scoprirono che l’onesto Cleveland manteneva un figlio illegittimo.
Votò il 77% degli elettori. Alla fine vinse Cleveland con un distacco minimo, meno di 60000 voti su 10 milioni. E Walt Whitman ci scrisse una poesia ‘Election Day, 1884, November’ in cui dice che lo spettacolo più nobile e potente che l’Occidente possa offrire è la pacifica scelta elettorale di un Presidente, ‘inerme conflitto, eppure che supera le antiche guerre di Roma, le moderne campagne di Napoleone‘, in cui ciascuno ‘fa in pace la sua scelta‘.
Insomma, una lezione civica, con tanto di tipico, roboante elenco geografico (‘dal Texas al Maine – gli Stati delle Praterie – il Vermont, la Virginia, la California’) ma anche con immagini un po’ meno sdate, come la ‘still small voice’ della democrazia e ‘the countless snow-flakes falling’ delle schede elettorali.

Ovviamente nessuno si sarebbe mai sognato allora di chiedere a Whitman di leggere suoi versi a una inaugurazione presidenziale, ma nemmeno a Longfellow o Emerson, che pure sarebbero stati contentissimi e più adatti. A parte tutto non usava, malgrado all’epoca i letterati americani fossero più coinvolti nella politica di quanto si creda, tipo Hawthorne che scrive la biografia elettorale di Franklin Pierce, uno dei peggiori Presidenti della storia Usa, e ne viene ricompensato con la carica di Console a Liverpool, o Melville che ne scrive una simile per l’appena meno mediocre Zachary Taylor, morto di indigestione per aver mangiato troppo gelato alla fragola un 4th of July particolarmente afoso.
Il primo poeta chiamato a partecipare a una inaugurazione presidenziale fu Robert Frost, nel 1961, per John Fitzgerald Kennedy, un raro caso di Presidente degli Stati Uniti con pretese intellettuali. Andò bene, tutto sommato: Frost aveva scritto una poesia per l’occasione, che iniziava ‘Summoning artists to participitate/ In the august occasions of the state/ Seems something artists ought to celebrate‘ e terminava un po’ incautamente con l’invocazione di una nuova ‘Augustan age’. Ma aveva il sole negli occhi e il vento gli strappava i fogli di mano. Non riuscendo a leggerla decise di recitare a memoria una sua vecchia poesia degli anni Trenta, ‘The Gift Outright‘, che per fortuna era proprio sugli Stati Uniti e pure più bella: ‘The land was ours before we were the land’s‘.
Robert Frost, comunque, era già da tempo sicuramente installato sul Parnaso della poesia americana (l’ultimo grande esponente della linea Emersoniana, cui a suo modo apparteneva anche Emily Dickinson e oggi Louise Gluck), cosa che non si poteva dire del tutto di Maya Angelou, che partecipò all’inagurazione di Bill Clinton nel 1993 (‘On the pulse of morning‘) e ancor meno di Miller Williams, Elizabeth Alexander e Richard Blanco (che poi magari sono poeti importanti e io non lo so: prima o poi ne parliamo, di quanto poco ne capisco io di poesia).

Ma l’inaugurazione di Joe Biden nel 2021 è avvenuta in circostanze eccezionale e eccezionalmente tese. Un elezione contestata, un Presidente che rifiuta di ammettere d’aver perso, l’invasione da parte di una folla invasata, il timore che potesse succedere di nuovo il giorno stesso dell’Inaugurazione – e tutto ciò durante un epidemia che ha fatto sì che la folla dovesse essere sostituita da una distesa di bandiere, insomma un clima di timore perfettamente giustificato e…
E niente, tutto è andato bene, la giornata era bellissima, Lady Gaga ha cantato l’inno nazionale, Biden e Kamala Harris hanno giurato e poi è apparsa un giovane donna in un abbacinante cappotto giallo e ha recitato una poesia. Come abbiamo visto, non era la prima volta che si sentiva poesia all’inagurazione di un nuovo Presidente ma stavolta le circostanze erano tali da garantire un pubblico e un’attenzione senza precedenti, così che Amanda Gorman, la Youth Poet Laureate, ha colpito l’immaginazione mondiale, è stata immediatamente acclamata come genio, ha declamato anche prima del Superbowl e ha un contratto da modella per un’agenzia importante. La sua raccolta di poesie, la cui pubblicazione è prevista per settembre, è già in testa alle classifiche Amazon con le sole prevendite.
Ma la poesia – ‘The Hill We Climb’ – ne valeva la pena?
Beh, ovviamente sì. Se è vero quel che disse Goethe, che tutta la poesia è d’occasione, allora ‘The Hill We Climb’ ha fatto tutto quel che doveva fare: era perfetta per l’occasione e ha funzionato. Ha dato un senso, un ritmo, un significato, a un momento particolarmente drammatico e ha fatto del bene a molta gente.

Somehow we’ve weathered and witnessed
a nation that isn’t broken,
but simply unfinished.

Poi sì, io stesso il giorno dopo, leggendo il testo, mi sono chiesto se era davvero poesia, se i buoni sentimenti non fossero troppo buoni, se il tono non fosse quello di un editoriale del NYTimes. L’effetto, chiaramente, non era lo stesso.
Il fatto è che che la poesia era fatta per essere letta, e letta a alta voce in un momento specifico. Quel poco di poesia che leggo è, appunto, poesia da leggere, non da ascoltare.

Non mi trovo a mio agio con la poesia orale e penso che il riferimento all’oralità originaria sia giusto storicamente ma insomma, non valga da un bel po’ e che se Amanda Gorman ha funzionato per me il 20 gennaio dipende anche dalla particolare caratura emotiva del momento, cioè ha funzionato dove doveva funzionare. C’è però chi la pensa diversamente da me e so che specie negli Usa c’è molta poesia orale (poetry slam?) e anche a Genova, se non sbaglio, c’è un festival di poesia che va avanti da un mucchio d’anni in cui i poeti da tutto il mondo leggono i loro testi.
C’è poi l’altra cosa, e cioè che è difficile oggi, per quel che ne so, trovare una poesia civica adatta a un’occasione molto formale come l’inaugurazione di un Presidente, sia pure nelle circostanze particolari di quest’anno. Direi che l’unica tradizione praticabile è quella whitmaniana ripulita ben bene e infatti Gorman c’ha messo anche il ‘broad geographical sweep’ così caratteristico del Bardo di Brooklyn.

We will rise from the gold-limbed hills of the west.
We will rise from the windswept northeast,
where our forefathers first realized revolution.
We will rise from the lake-rimmed cities of the midwestern states.
We will rise from the sunbaked south.

Non è all’altezza di Whitman? Permettetemi un cordiale ‘esticazzi!’. Nemmeno Whitman è sempre all’altezza di Whitman.
Anche nel campo della poesia civica per un ‘When last the lilacs in the dooryard bloom’d’ ci sono risme di versi molto meno ispirati, se devo dar retta a Harold Bloom.
Ci si arrangia con quel che si ha sottomano, con modelli difficili e tentando di conciliare esigenze diverse e nella mia modesta opinione, Amanda Gorman il 20 gennaio, sui gradini del Campidoglio appena due settimane prima percorsi da una furia omicida, c’è riuscita.

 


stefano trucco*Stefano Trucco è nato nel 1962 a Genova, dove vive e lavora come bibliotecario. Ha pubblicato due romanzi – ‘Fight Night’ (Bompiani, 2014) e ‘Il Gran Bazar del XX secolo‘ (Aguaplano, 2019) -, il racconto lungo ‘1958. Una storia dell’Età Atomica‘ (Intermezzi, 2018) e un po’ d’altri racconti qua e là.