11 Gen Cose che interessano a me
COSE CHE INTERESSANO A ME
Rubrica di Stefano Trucco*
HITLER, UN FILM DALLA GERMANIA
“Quando la buona vecchia democrazia
Del XX secolo cominciò a invecchiare
Inviò messaggeri in ogni direzione
Per scoprire le cause della miseria del mondo.
Quando tornarono i messaggeri
Dovette ascoltare la notizia
Che veniva da est e da ovest
Da nord e da sud e da tutti i computer,
macchine incorruttibili, come si suol dire,
che lei stessa, la buona vecchia democrazia
era l’unica causa della miseria del XX secolo”
Ok, questo direi che da un po’ il gusto della serata, un misto di assenzio e Guinness, ferocemente sarcastico e al tempo stesso malinconico cui non siamo più abituati o forse non lo siamo mai stati, specie su certi temi.
Mi chiedo come dev’essere stato, nei lontani anni Settanta, guardare in sala un film tedesco di sette ore in bianco e nero su Adolf Hitler. Un film, fra l’altro, di DESTRA, sia pure a suo modo. Non è una storia e nemmeno un documentario: una serie di monologhi, piuttosto. Un’esperienza, come minimo.
Eppure, ‘Hitler, un film dalla Germania’, di Hans Jurgen Syberberg, del 1977, è decisamente un grande film in tutti i sensi. L’edizione americana fu curata da Francis Coppola e Susan Sontag lo definì uno dei capolavori del XX secolo. In effetti faccio fatica a pensare a un’opera più Novecento di questa, più megalomane, più radicale, più personale, più modernista nel senso proprio del termine, di questa.
Io me lo vidi con calma, a casa, un’ora alla volta.
Soprattutto, prima mi ero letto la sceneggiatura, pubblicata in Italia nel 1984 da Ubulibri.
Sapete com’è col cinema tedesco: un film interessante ogni sei o sette anni quando va bene, ma con due periodi di favolosa e frenetica creatività: la Repubblica di Weimar – Lang, Pabst, Murnau… – e gli anni Settanta – Fassbinder, Herzog, Wenders… e Syberberg, che segna la sua presenza quasi solo con questo assurdo e titanico monolite (prima di allora aveva diretto film su Ludwig di Baviera e Karl May, il Salgari tedesco; dopo, poco altro: lo sforzo l’aveva spento).
Kolossal a basso costo: mezzo milione di marchi, 20 giorni di lavorazione (dopo quattro anni di preparazione) in un capannone industriale con un piccolo gruppo di bravi attori di teatro e un po’ di attrezzi di scena, manichini e costumi e la figlia bambina di Syberberg, muta, con una corona di pellicola cinematografica e un cane di pezza col volto di Hitler.
In un certo senso potremmo dire che si tratta di ‘teatro filmato’, ma in modo da impiegare tutte le risorse del cinema oltre che del teatro. Un uso molto parco del repertorio filmato, generalmente in retroproiezione, ma piuttosto ricco di quello sonoro (la radio, la voce della guerra totale e del totalitarismo tribale) – che perciò offre un altro livello di difficoltà anche se poche cose sono stranianti come la voce di Hitler quando non urla ma parla normalmente, in un tono che si potrebbe definire come ‘confidenziale’ e perciò abbastanza spaventoso.
Come spaventosi ma a loro modo affascinanti sono certi reperti radiofonici come l’appello dei caduti che si ripeteva ogni anno nell’anniversario del putsch del 1923 o una trasmissione natalizia del 1942, quasi al momento della massima espansione del Reich, in cui soldati, aviatori e marinai da tutti i fronti e territori occupati – Stalingrado, Libia, Grecia, Francia, Norvegia… – cantano in coro Stille Nacht, Heilige Nacht…
Prendendo a modello sia Richard Wagner che Bertold Brecht (Syberberg era nato all’Est e nei primi anni Cinquanta, prima di emigrare in Germania Ovest, aveva ripreso alcune messe in scena brechtiane del Berliner Ensemble), opera d’arte totale e straniamento, e un décor espressionista che coi pochi mezzi a disposizione alterna festosità circense, fantasia cosmica, flusso di coscienza onirico e cabaret satirico, il regista prussiano rilascia un fiume di eloquenza, vera eloquenza verbale senza freni né riguardi, non per fare la storia del nazismo (si dà per scontato che la sappiate già e bene perché si va molto nello specifico: qui non si fa divulgazione) ma una sua interpretazione, un’interpretazione, dicevamo, decisamente di destra, quasi apologetica, con momenti davvero borderline (diciamo che gli ebrei nel complesso a Syberberg non piacciono e quando fa parlare il fantasma di Hitler gli mette a disposizione gli argomenti migliori) ma in realtà profondamente critica e leggendola o ascoltandola ci si rende conto di quanto sia raro questo fenomeno: la critica della destra da destra. Meglio, della destra nazi-fascista da parte di quella tradizionalista. O anche solo conservatrice nel senso pieno del termine.
Nella visione di Syberberg Hitler è un vero, autentico figlio della democrazia, democrazia intesa nel suo senso più radicale, senza i lacci e ceppi del liberalismo. Quella democrazia di massa che secondo il pensiero conservatore non può non degenerare nella tirannide.
Perché ‘gli dei decisero una scommessa con gli uomini, come nelle antiche fiabe e nelle saghe mitologiche, nei racconti, nei drammi, nella musica: “Va bene” dissero, “per l’ultima volta voi stessi potete decidere il vostro destino e scegliere quell’uomo, uno dei vostri, che vi conduca alla felicità. Un uomo della strada, come si dice, uno di voi, uno qualunque”. Ammettiamo che sia andata così, che fossero le ultime parole degli dei prima di andarsene definitivamente su un altro pianeta, uno dei tanti miliardi, lontano da noi miliardi di anni luce, dove c’era ancora bisogno di loro. E lasciarono così l’uomo solo con se stesso, e col suo progresso, come dire la sua felicità, il paradiso degenerato. (…) E i mortali scelsero uno che voleva l’impossibile, scelsero un incompreso e l’incomprensibile, un uomo lacerato dall’amore e dall’odio, la corona d’alloro per l’eroe morente. Non un politico, uno che era artista e dio, a cui si ubbidiva con la semplicità della fede, uno del loro stesso ambiente, ecco cosa volevano, e se lo scelsero così”.
Hitler non è solo l’esito finale della democrazia ma anche del cinema, ‘la nera madre della nostra fantasia… la camera obscura che ci racconta vecchie storie in modo nuovo. Le proiezioni del nostro mondo interiore… storie di nostalgia, di desiderio, di follia del nostro intimo, quando ormai il mondo esterno è diventato un muro insormontabile ai nostri desideri. Come ai tempi della scuola’. Del resto, Hitler non era forse un fanatico di cinema, ‘il primo spettatore del Reich’? Il cinema come incubatore dei sogni collettivi, quindi come qualcosa di meraviglioso ma potenzialmente molto pericoloso, molto più pericoloso della televisione possiamo dire col senno di poi.
Ma ovviamente fu scelto l’uomo sbagliato, lui e i suoi gerarchi, che hanno tutto il tempo per impiccarsi con le loro stesse parole. Il lunghissimo monologo del valletto di Hitler lo annienta in un fiume di dettagli insignificanti di vita quotidiana, compresa una scappatella in incognito nella Monaco natalizia del 1938 che sfuma nel fiabesco. Allo stesso modo il suo proiezionista – oggi produttore di film porno – rimpiange l’età d’oro del cinema tedesco durante il regime. Quando Syberberg arriva all’Olocausto, visto interamente dal punto di vista di Himmler e delle SS non si e ci risparmia nulla. Tutta quella favolosa retorica irrazionalista (un termine che per Syberberg è assolutamente positivo) si spegne in una tristissima serie di crimini meschini senza la minima grandezza e giustificazioni assurde. E il risultato finale è che tutti quei valori che per lui e i conservatori tradizionali sono l’essenza stessa dell’anima tedesca sono definitivamente e irrimediabilmente macchiati, anche perché quelli come lui si affidarono a Hitler e solo quasi all’ultimo cercarono di reagire e pure fallendo. Come disse all’epoca un scrittore ebreo cattolico austriaco, Franz Werfel, i fascisti sono quelli che distruggono il vecchio ordine per difenderlo.
Ora, nella Germania degli anni Settanta, divisa fra la squallida banalità democratica e l’oppressivo puritanesimo socialista, due mondi che Syberberg detesta con la stessa intensità, l’ombra di Hitler si allunga sul mondo, vero avatar della modernità, e farseschi politici bavaresi progettano parchi a tema sul nazismo, perché Hitler va come il pane e il turismo viene prima di tutto.
“Tu sei il responsabile di quelle case, di quelle abitazioni senz’anima, dagli occhi sempre spenti, senza lacrime, sono città senza vita, paesaggi automobilistici senza più pace, un brulichio fino alla nausea…Tu sei colpevole del fatto che non possiamo più vedere un campo di grano senza pensare a te… Il denaro, l’insidia più innocente, l’unica cosa che non hai intaccato; per il resto hai avvelenato tutto, l’onore, la fedeltà, la vita in campagna, la passione per il lavoro, il cinema, la dignità, la patria, l’orgoglio, la fede… Sei la peste del nostro secolo. Il misero artista che, per fare il boia, diventa uomo politico, spontaneamente adorato da tutti come nessuno mai prima…”
Insomma, la destra tradizionalista ha cercato di difendere i suoi valori, che Syberberg condivide, affidandosi all’uomo che li avrebbe distrutti e sporcati per sempre. Il tentativo di resistere con la forza al mondo moderno finisce col trionfo totale della modernità. Un patto col diavolo finito nel peggior modo possibile. Anche Heidegger finì per considerare Hitler e il nazismo solo come una specifica forma della modernità ma aveva fatto in tempo a sporcarsi ben bene, come la Germania.
E a noi rimane un film come pochissimi altri nella storia del cinema.
*Stefano Trucco è nato nel 1962 a Genova, dove vive e lavora come bibliotecario. Ha pubblicato due romanzi – ‘Fight Night’ (Bompiani, 2014) e ‘Il Gran Bazar del XX secolo‘ (Aguaplano, 2019) -, il racconto lungo ‘1958. Una storia dell’Età Atomica‘ (Intermezzi, 2018) e un po’ d’altri racconti qua e là.