Bourbon & congetture - Parole Spalancate Richie Furay
Attivo dal 1995, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole Spalancate” è la più grande e longeva manifestazione italiana di poesia
Festival, poesia, Genova
2004
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Bourbon & congetture

Bourbon & congetture

BOURBON & CONGETTURE
Rubrica di Walter Gatti*


RICHIE FURAY, E IL SENSO DELLA NOSTALGIA

richie furayTra Ermanno Rea e Andreji Tarkovskij non so perché, ma scelgo sempre quest’ultimo. Anche quando si parla di nostalgia. Tra il napoletano Felice Lasco, che Rea riporta a casa, e Andrej Gorčakov, cui il regista russo consegna il compito di attraversare la vita con una candela in mano, trovo che il secondo sia più coraggioso e visionario.

Per chi ha vissuto la fascinazione entusiasmante del country rock e del periodo californiano della musica bella, sognante e luminosa, il nuovo disco dal vivo di Richie Furay, 50th Anniversary – Return to the Troubadour, è un divino inno alla nostalgia emozionale, un toccasana nel bel mezzo di tempi incerti e comunque cupi, un modo per ritrovare un fuoco che rimane sotto la cenere di musiche impotenti, ripetitive e fastidiose.

Fondatore a metà degli anni ’60 dei Buffalo Springfield insieme a Stephen Stills e Neil Young, Richie ha poi fondato un’altra della band di riferimento del suono californiano, i Poco, una formazione dal successo limitato, dalle idee musicali trascinanti, ma dal successo limitato. Gli anni passano, i Poco si sfaldano, Richie fa la scelta (non insolita negli Usa) della conversione cristiana, e va a fare il pastore in una “chiesa” del Colorado. Poi incide altri album, collabora con Chris Hillman (altro mito americano), sempre rimanendo nel novero dei musicisti di culto per una voce cristallina, un’ottima scrittura e una inossidabile verve. Ed oggi, dopo una cinquantina d’anni da quei “primi passi”, se ne esce con un album di memorabilia dal vivo lussuoso e scintillante, roba che Eagles, o Jackson Browne (tanto per dirne un paio) non hanno voglia di fare.

Tanto per esser trasparenti: Furay non è rimasto con le mani in mano, nel frattempo, ed ha pure fatto tournèe ed altri album.
Ma dove sta allora il “segreto”? Il live Return to the Troubadour è proprio l’album visionario di un’epoca, il documentario di un mondo, la carrellata di migliori suoni solari su piazza.
Il disco è un doppio che mette in fila pezzi scintillanti: On the Way Home (1968) è un brano di Neil Young dall’ultimo disco dei Buffalo Springfield, lo stesso da cui arriva l’ottima Kind Woman; Picking up the Pieces e il trascinante medley Just in the case it Happens, Yes Indeed/Grand Junction/ Consequently So Long viene dall’esordio dei Poco (1969), mentre brani come We Were the Dreamers e Wind of Changes vengono dall’ultimo disco di Furay (Hand in Hand, 2015). Il secondo disco di questo doppio, in particolare, gioca con la storia, perché è la replica re-interpretata di Deliverin, disco dal vivo dei Poco datato 1971.
Il prodotto è un compendio inesausto di brani bellissimi, veloci, solari, noncuranti del tempo che scorre, immutabilmente belli, definitivamente giovani, innocenti e coraggiosi, come Good Feeling to Know (a cui partecipa anche Timothy B. Schmit, bassista dei Poco e poi giunto al successo stellare con gli Eagles).

A 76 anni occorre dire che Richie è un personaggio venerato negli Usa: un Jackson Browne di minor visibilità, ma di non minor qualità. Il suo “primo amico musicale”, Stephen Stills, ne ha sempre tessuto le lodi. Don Henley, fondatore degli Eagles, ha detto pubblicamente “senza Richie non ci sarebbero gli Eagles ed il country rock avrebbe avuto meno energia”. Questo disco rende ragione a tutto questo, al musicista, alla sua caparbietà (non ha mollato anche quando gli altri avevano il triplo del suo successo), alla sua serenità, alla sua umanità.

Ma questo disco rende ragione anche alla nostalgia di tanti, senza peccare di malinconia. Nostalgia di cosa? Nostalgia perché? Tempi giovani? Voglie inossidabili? Atmosfere scomparse? Sogni prima del declino? Sorrisi senza ruggine? La musica era un cavallo pazzo in un mondo che aveva acceso il motore. I Buffalo Springfield, i Poco, tutta la West Coast, da CSNY agli America, dai Quicksilver ai Grateful Dead, dai Jefferson a Janis Joplin era il vero luogo del sogno e del miraggio, per loro come per noi (che magari eravamo nella nebbiosa Pianura Padana). Poco importa se solo dopo pochi anni arrivarono gli Eagles a descriverla altrimenti (“potrebbe essere il paradiso e potrebbe essere l’inferno”, Hotel California).

Il nuovo disco live di Richie Furay non venderà milioni di copie, è già tanto se servirà al musicista per fare qualche data in giro per gli States. In compenso può rimettere apposto come non mai le sinapsi della personale nostalgia, mettendo in ordine un mondo sentimentale e cerebrale che ha vissuto e vive sperando nell’armonia e nella bellezza.
E chi è giovane e quei tempi non li ha vissuti potrà sempre dire “io non c’ero, ma qualcosa – adesso – posso capire”.

Guardate qui Richie Furay dal vivo!


walter gatti*Walter Gatti, giornalista (Lodi, 1959).
Scrive dalla metà degli anni ’80. Appassionato di musica americana, preferisce il blues e adora il southern rock. Il destino benevolo gli ha fatto intervistare B.B.King e Albert Collins, Jeff Buckley e Pink Floyd, Dan Aykroyd e Leonard Cohen. Ha visto in concerto Stevie Ray Vaughan e la Allman Brothers Band: il resto è un’appendice.